II DOMENICA dopo il Martirio di san Giovanni Battista

E’ bello poter riflettere in questa domenica partendo dal brano del profeta Isaia. E’ un canto dove si esprime tutto l’amore di Dio per il suo popolo, la sua vigna. Leggiamo parole che cantano la bellezza di questa passione di Dio. Interessante la domanda: “Che fare di più alla mia vigna che io non abbia fatto?” La vangò, la liberò dai sassi, vi pianto viti eccellenti, vi costruì una torre. Che fare di più?

Il verbo “fare” esprime la volontà del “fare” di Dio. Il “fare” di Dio appassionato per noi! Ma cosa si aspetta Dio dal nostro “fare”? Forse si aspetta di essere riamato! E invece no! Dio non attende nulla per sé. Attende che noi facciamo qualcosa per l’altro, che facciamo la giustizia verso l’altro.

E’ questa la cosa da fare, il frutto buono che Dio aspetta dalla sua cure per la vigna. Leggiamo: “Attendeva diritto ed ecco delitto, attendeva giustizia ed ecco ingiustizia”. Che cosa si aspetta Dio da noi?  Attende di essere uomini veri. Che fra noi dimori quell’insieme di valori che ci renda più uomini. Piccoli gesti che possono dire tutto.

Gesti semplici e umili che non appiano nei giornali e in televisione ma che segnano il cuore dell’uomo e lo trasformano. La pace parte da qui!

E vengo al Vangelo, alla piccola parabola dei due figli cui viene rivolto dal padre l’invito ad andare a lavorare nella vigna.

Il primo figlio risponde al padre che non aveva voglia di andare nel campo a lavorare; e tuttavia poi ci ripensò, si pentì e ci andò.

Il secondo figlio invece, bene educato, sapendo che i padri amano soprattutto non essere contraddetti, subito si affretta a dire: Sì, signore, ma poi fa quello che gli pare; egli di fatto non andò nella vigna.

Con questa parabola Gesù si rivolge ai farisei che avevano una religione di facciata. In apparenza amavano una legge che nulla aveva a che fare con l'amore: era più una esibizione esterna che una risposta di amore.

Ciò che sorprende è che i più pronti ad accogliere e a credere sono persone ritenute perdute e irrecuperabili: “pubblicani e prostitute”, mentre i “capi” del popolo non hanno accolto né “creduto”.

Davanti a Gesù siamo sollecitati a prendere una decisione come dice la parabola ascoltata.

La nostra fede cristiana ha una caratteristica che la rende unica. Il fatto di avere un Dio che si è fatto uomo costringe la nostra spiritualità ad incarnarsi, obbliga la nostra preghiera a diventare azione. Come sarebbe più comoda una fede che resta nei cieli! Una religione che si esaurisce nella preghiera e nel culto.

Gesù desidera che lo imitiamo nelle parole e nelle opere. E allora dobbiamo chiedercelo: quanto influisce la nostra fede sulla nostra vita?

Il "dire" la nostra fede significa renderla presenza concreta nella comunità.

Il Signore chiede l'autenticità, apprezza di più il figlio che dice: "Non ce la faccio, non ne ho voglia" e poi si sforza, rispetto all'altro che dice "sì" e non si schioda.

Che il Signore ci spinga all'autenticità, ci doni di non fermarci alle parole ma, con semplicità e coraggio, ci conceda di gridare il Vangelo con la nostra vita. Solo così potremo diventare figli di quel Dio che continuamente cerca l'uomo per svelargli il suo amore.