Il bello del nostro essere Chiesa

"Come Gesù" è lo slogan che illuminerà il cammino dei nostri Oratori per questo nuovo anno.

 

Ci porta nel cuore stesso dei pensieri di Gesù, delle sue azioni, dei suoi comportamenti, perché ciascuno di noi possa essere - nella vita, e non solo nel chiuso delle nostre chiese - una immagine, un riflesso della vita stessa di Gesù.

 

È quanto ci chiede anche il nostro Arcivescovo invitandoci ad "educarsi al pensiero di Cristo", perché non ci sia separazione tra la fede e la vita. Educarci al pensiero di Cristo, per diventare "come Gesù"!

 

Sfida grande, che non riguarda solo i ragazzi, ma che coinvolge anche gli adulti che sono coloro che hanno una responsabilità educativa e che devono "remare" tutti nella stessa direzione, devono avere linguaggi e atteggiamenti educativi uniformi.

Così scrive il nostro Arcivescovo: “Vorrei ora gettare uno sguardo sulle realtà in cui l’azione del soggetto ecclesiale si dispiega giorno per giorno. Mi riferisco alla realtà delle zone pastorali e dei decanati con la ricca rete di parrocchie e comunità pastorali, con i loro oratori e la varietà di gruppi, associazioni e movimenti. Essi sono i luoghi imprescindibili di educazione ad una fede che incida nella vita quotidiana del popolo. Vigilino perciò per evitare di ridursi a realtà a margine dell’esistenza e dei suoi problemi.

L’urgenza di educarsi al pensiero di Cristo, per poter esercitare fattivamente la dimensione culturale della fede in una società plurale e complessa, domanda una sempre più autentica integrazione pastorale di tutte le realtà di fedeli che costituiscono una ricchezza per la nostra Chiesa.” (…) È necessaria una maggior disponibilità reciproca, senza chiusure pregiudiziali, nel rapporto tra parrocchie. (…) Lo domanda lo stesso invito di Gesù: «tutti siano una sola cosa (...) perché il mondo creda che Tu mi hai mandato» (Gv 17,21).

Riprendendo quanto ho condiviso con il nuovo consiglio pastorale, la parrocchia di oggi deve saper ricuperare l’appartenenza alla chiesa più ampia, non tanto perché partecipa a qualche iniziativa della chiesa diocesana, ma perché si sente dentro di essa e supera l’idea di una parrocchia autosufficiente, dove si fa tutto qui e guai se uno va nella parrocchia vicina. Chi vive con questa mentalità, facendo uso del linguaggio di papa Francesco, soffoca, si ammala.

La Chiesa è soprattutto chiamata a formare dei cristiani, non dei parrocchiani. La Comunità Pastorale diventa una realizzazione piccola ma concreta di questo superamento della parrocchia autosufficiente.  Ritengo che questo superamento debba essere un cambiamento di mentalità. Queste parrocchie devono superare la visione di parrocchia chiusa in se stessa, altrimenti si snaturerebbe l’idea di Chiesa.  La Comunità Pastorale ci sta aiutando a comprendere questo perché mette a confronto cammini diversi, situazioni concrete diverse, laici provenienti da esperienze diverse, perché il meglio delle esperienze possa contagiare le altre, permetta di vivere esperienze anche numericamente significative che possono favorire alcuni aspetti della vita delle persone. Dovrebbe essere una realtà che allarga la tensione missionaria.

Paolo VI nell’ Evangelii nuntiandi: “La chiesa esiste per annunciare il vangelo”. La Chiesa fa tante altre cose, ma se non annunzia il vangelo perde la sua identità. La Comunità Pastorale ci aiuta in questo. La ragione fondamentale del nostro stare insieme è di aiutare a costruire un’immagine corretta di Chiesa, per allargare gli orizzonti e per comprendere di essere parte di quella realtà più grande che è la Chiesa. 

E all’interno di questa Chiesa è necessario avere dei laici corresponsabili, quante volte ce lo siamo sentito ripetere.  Degli adulti che vivono con senso di responsabilità il proprio servizio e non costituendo “centri di potere” con quello che fanno. “Centri di potere” che spesso esistono anche nelle nostre parrocchie. Smantellare i “centri di potere” è un grande segno di missionarietà.  I “centri di potere” rappresentano un modello aziendalista di gestire la parrocchia, ma non un modello ecclesiale.  Non siamo un’azienda. Non è la pura efficienza che conta nella vita della Chiesa.  É più facile una intelligente collaborazione che una corresponsabilità. Collaborazione è realizzare il meglio possibile quanto richiesto; corresponsabilità è sedersi ad un tavolo e progettare.

Valutando comunque in generale, ho l’impressione che nella nostra comunità pastorale c’è un maggior senso di comunione: le persone si sentono parte di un cammino e ciò che si fa non è più visto come "l’affare del prete" ma come qualcosa che ci appartiene. Mi ricordo che appena arrivato nella nostra comunità pastorale, dopo la mia esperienza africana (sono ormai sei anni), avevo una sensazione di solitudine dove la comunità si esauriva nel prete, preso di mira dai giudizi, mentre le persone erano solo i fruitori di un servizio non i "padroni di casa".  E’ bello, invece, vedere persone che si sentono a casa loro, corresponsabili di un cammino comune.

Che passi restano ancora da fare? Forse dobbiamo approfondire maggiormente la nostra fede! E’ bello vivere insieme, conoscersi, aiutarsi, condividere (come facciamo anche nei pranzi delle varie feste parrocchiali).

Ci vogliono delle motivazioni che non siano solo i nostri bisogni di festa, ma capacità di andare al cuore dei problemi. Dobbiamo dare risposte serie a problemi veri. Serve l’entusiasmo, ma c’è bisogno anche di fedeltà, di obbiettivi, di coerenza, di sacrificio, di capacità di offrire la propria vita.

Attraverso la lettera pastorale del nostro Arcivescovo, dobbiamo fare uno sforzo educativo in più, perché il “pensiero di Cristo” sia il nostro pensiero. “Tenendo conto dell’attuale tempo storico, ritengo urgente che nella nostra diocesi si approfondisca il tema del pensiero e dei sentimenti di Cristo. È necessario riscoprire la dimensione culturale della fede, per vincere l’estraneità tra la nostra pratica cristiana e il concreto quotidiano”.

E’ necessario capire che cosa significa credere. La fede quando è vera, crea un circolo di vita, unisce i cuori, supera le difficoltà, trasforma le persone (che istintivamente entrerebbero in contrasto) in fratelli. La Chiesa esiste per parlare non con "sue" parole, ma con quelle di Cristo e deve "provare con la testimonianza" che queste sono vere.

A che serve scoprire un tesoro e non usarlo tenendolo nascosto? Non conosco nessuno che una volta acquisita una fortuna non la usa e la nasconde. Se compro una macchina è per usarla non per tenerla in garage. Se non la usi mai è perché non ce l'hai, l'uso che facciamo della nostra vita ce ne dice la qualità. Ecco perché il card. Scola nella sua lettera scrive: “Usciamo ad annunciare Gesù come fecero i primi. Percorriamo con umile franchezza e coraggio le vie del mondo, ricchi solo della quotidiana compagnia di Gesù e della sua Chiesa. Senza pretese, liberi dall’esito: sappiamo che ci muove solo lo Spirito di Colui che ci ha detto: «io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Noi vogliamo solo amare e sentire come Cristo e pensare Lui attraverso tutte le circostanze e i rapporti della nostra esistenza per il bene nostro e di tutta la famiglia umana”.

Abbiamo fatto un bel cammino per capirci e capire, sicuramente ancora molto resta da fare, ma la traccia è segnata, l’importante è avere un progetto e non andare a caso, altrimenti si fanno certamente le cose, ma si gira a vuoto. Il fare e l’essere vanno sempre insieme. Questo nuovo anno pastorale e l’anno santo che prossimamente prenderà il via ci aiutino a ricuperare quei passi che ancora restano per raggiungere la bellezza della nostra chiesa, la preziosità della nostra vita.

 

don Claudio