Un anno nuovo, tra scadenze e speranze

In questi primi giorni di settembre è facile incontrare persone e raccontarci cosa abbiamo fatto durante l’estate. Mi piace ascoltare gli esperti di montagna, quando raccontano quello che hanno potuto vedere: straordinari spettacoli di rocce, di ghiacci e di cielo. “Poi arriva settembre – qualcuno mi dice – riprendo a lavorare e l’unica montagna che ho davanti è il Calvario”. Non ha tutti i torti. Spesso ci troviamo a ricominciare un anno con addosso la nostalgia per le ferie e un po’ di apprensione per quanto ci aspetta. Siamo già oppressi dalle prime scadenze, innervositi dai ritmi di lavoro che non ci lasciano tregua, preoccupati per un calendario che ci toglie il fiato - ai piedi del Calvario, insomma.
Ma deve essere per forza così? Non possiamo provare a cambiare passo, a iniziare con uno stile diverso, con un atteggiamento più fiducioso? Mi viene in mente che prima di arrivare al Calvario gli apostoli hanno scalato tante altre montagne. E vorrei guardare all’inizio di quest’anno pastorale come alla salita gioiosa al Monte delle Beatitudini, nello spettacolo meraviglioso che ci offre la terra di Galilea.

Sarebbe bello riuscire a leggere così le tante scadenze e gli appuntamenti importanti che ci attendono: come ad un’ascesa faticosa e lieta insieme al Signore, per tenergli compagnia e nutrirci della sua Parola. La comunità cristiana non è una macchina da mettere a regime che poi funziona per proprio conto, ma un insieme di persone che ogni volta mettono in gioco la propria esperienza e la propria vita. Mi pare utile identificare alcuni passaggi di stile, alcune note di fondo che devono sostenere l’agire della nostro comunità intera in questo inizio dell’anno pastorale. E visto che abbiamo parlato del Monte delle Beatitudini, provo a fare questo rileggendo qualche piccolo passaggio.

Il primo richiamo lo trovo nel discorso delle beatitudini (Matteo 5,1-12). Viene descritto un cammino progressivo di accostamento al Signore attraverso tre verbi incalzanti: salire, sedersi, avvicinarsi. Si coglie immediatamente un clima segnato dall’attesa, dal desiderio, dalla fiducia che in quel giorno il Maestro regalerà qualcosa di buono. Sono convinto che spesso ciò che manca di più alle nostre comunità è questo atteggiamento fiducioso, non rassegnato, questo desiderio grande di salire col Signore e sedersi davanti a lui. Non ci aiutano in questo le migliaia di adempimenti e di urgenze che sembrano soffocare una dinamica più semplice di parrocchia; non sempre ci sostengono i numerosi progetti e piani pastorali che irrigidiscono la nostra azione e la rendono complicata; non ci dà una mano l’ansia di raggiungere ad ogni costo grandi risultati. Basterebbe – forse – che ciascuno di noi chiedesse al Signore il dono del desiderio: desiderio di vivere la fede, di agire nella speranza, di operare la carità. Senza troppe impalcature attorno. Tanto più che la prima parola che il Maestro rivolge ai suoi si rivela liberante e sorprendente. Non è una complicata spiegazione di qualche oscuro passaggio della Scrittura, e nemmeno l’elenco minuzioso di un’infinita serie di norme morali o di leggi da rispettare. È una parola sulla felicità: “Beati” (cf Mt 5, 3-12). Il primo discorso ufficiale di Gesù è un discorso sulla gioia, sulla possibilità dell’uomo di vivere felice. Vale anche per noi. Troppe volte vorremmo puntare su comunità che sono anzitutto “impegnate”, “pre-parate”, “serie”, “mature”. E chissà come mai pensiamo che tutti questi aggettivi siano in contrasto con altri: “gioiose”, “liete”, “serene”, “ra-diose”. Il Signore vuole anzitutto che siamo contenti: anche nelle nostre parrocchie tutto è una questione di felicità. Nessuno verrà a farci compagnia se saremo noiosi e tristi, se le nostre assemblee saranno grigie e le nostre riunioni inutili. Una delle gioie più grandi per un parroco è vedere la gente che arriva e riparte contenta quando partecipa all’eucaristia domenicale o a qualche momento di incontro in parrocchia.
Dopo le beatitudini, il Signore Gesù ci regala l’immagine del sale e della luce (cf Mt 5, 13-16). Ho sempre pensato a quanto siano diversi tra loro questi elementi. Il primo deve sciogliersi per ottenere il suo effetto; la seconda deve essere ben visibile per risplendere e non può restare nascosta. Leggo in questo accostamento tra sale e luce un elogio della differenza. Anche in una comunità le diversità non sono un ostacolo ma una ricchezza. Dio non vuole un esercito, ma un popolo, e in un popolo c’è un po’ di tutto, ci sono differenze di età, sesso, storia, stili, formazioni, atteggiamenti. È necessario un vivere alternativo che trova la sua origine nella Parola di Dio. La comunità cristiana che si raduna attorno a Lui ha come unico criterio valido il Vangelo, la buona notizia. In altre parole: alla sua comunità che va formandosi tra mille difficoltà e fatiche, il Signore non propone un rilancio delle iniziative ma un cambiamento di mentalità. Certo, questa novità deve avere anche la freschezza e la visibilità tipica dei segni, deve sbocciare in un’operosità efficace e concreta. Ma occorre continuamente vigilare perché quanto si pone in atto non sia una ripetizione di schemi e di progetti ai quali finisce per mancare l’anima: una forma senza sostanza.
E da ultimo edificare la Chiesa. Ce li ricorda la parabola delle due case che conclude il discorso della montagna. Matteo è esplicito: la differenza è tra chi ascolta soltanto e chi ascolta e mette in pratica. Il suo vangelo, del resto, è spesso preoccupato di dirci che cosa dobbiamo fare. Mi pare un invito a non trascurare l’aspetto pratico delle cose, a semplificare le complicazioni inutili e a trovare segni concreti che diano fiducia. Non sono necessari segni straordinari. Le domande che devono animare il nostro cuore (in particolare coloro che hanno responsabilità nella comunità pastorale, penso al consiglio pastorale, ai catechisti, agli animatori dei gruppi di ascolto), devono riguardare le questioni di fondo, e su come la parrocchia esprime la propria cura pastorale a partire da esse. Come si celebra? Quanto e quando si ascolta la Parola? Quali le iniziative che sostengono lo spirito missionario? Quale volto di carità intendiamo offrire a chi bussa alla nostra casa?  Tutto questo, ci ammonisce Matteo, sta in mezzo ai guai della vita. Non si dice che alla casa sulla roccia vengano risparmiate alluvioni e intemperie, ma solo che resta salda e non crolla, a differenza dell’altra. E tutto questo senza scordare che edificare la Chiesa significa anche continuare a cercare il Regno. Non è la chiesa il fine o il senso della nostra azione, ma il regno di Dio. Come Chiesa camminiamo insieme verso la sua venuta e verso il suo compimento, mentre già nel presente ne sperimentiamo i segni promettenti e gli anticipi colmi di speranza.
Una comunità cristiana non risolve tutti i problemi del mondo, e nemmeno quelli della parrocchia stessa; spesso neppure quelli dei suoi singoli appartenenti. Ma può sempre porsi come segno e testimonianza del mondo futuro. Può riaprire le grandi domande della vita e suggerire percorsi per incontrare e conoscere Dio. Una comunità cristiana – per quanto piccola e fragile possa essere – vive “secondo il vangelo” quando sa diventare segnale, cartello indicatore verso Dio.
Buon inizio! Buon anno pastorale.
                                    don Claudio